Si è svolto dal 22 al 25 gen. il XIX corso di formazione per Assistenti OFS-GIFRA d’Italia. Un centinaio di frati di tutte le tre Obbedienze, compreso il TOR, (della nostra Provincia eravamo in otto) si sono ritrovati sul tema «Una norma di vita nel villaggio globale». Ciò in occasione dei 40 anni della nuova Regola OFS.
I vari relatori hanno coinvolto i frati in interessanti dibattiti, tutti centrati nell’essere sempre più testimoni e competenti in quest’era digitale nel trasmettere il carisma francescano nell’OFS-GIFRA. Arricchente la presenza degli Assistenti Internazionali, confermando l’importanza del corso. Bella la comunione tra noi frati.
La vita di Padre Marco è, a dir poco, sconcertante. La Provvidenza vi gioca nei modi e momenti più impensati, mentre egli asseconda con umiltà e fedeltà il disegno di Dio.
Nasce ad Aviano, in Friuli, il 17 novembre 1631. Lo stesso giorno, riceve al battesimo il nome di Carlo Domenico. I genitori, Marco Cristofori e Rosa Zanoni, sono benestanti. Hanno altri dieci figli, dei quali uno sacerdote come lo zio paterno.
Il ragazzo lascia sperare bene e perciò viene affidato ai padri Gesuiti nel prestigioso collegio di Gorizia. Tutto procede normalmente finché un giorno Carlo Domenico, sui sedici anni, fugge dal collegio. Mette ali alla sua fantasia ciò che sta succedendo nell’isola di Candia, dove i veneziani resistono da tempo all’assalto dei turchi. Non sono pochi i giovani che sognano di partecipare a quegli atti di eroismo. Arrivato a Capodistria e in procinto di imbarcarsi, è costretto però dalla fame a bussare al convento dei Cappuccini. Non è difficile convincerlo di tornare a casa. Non gli mancheranno in seguito le occasioni di viaggiare e trovarsi fra soldati e battaglie.
Cappuccino e predicatore
L’anno dopo (1648) il giovane Cristofori bussa ancora alla porta dei Cappuccini; questa volta ha un progetto ben chiaro: vuole farsi frate. È accolto nel noviziato a Conegliano con il nome di fra Marco. Il 21 novembre 1649 fa la professione religiosa. Affronta quindi gli studi per la preparazione al sacerdozio. Il 18 settembre 1655 è ordinato sacerdote a Chioggia, ma non potrà predicare: gli esaminatori non lo trovano idoneo. A Marco piacciono comunque il silenzio e la vita nascosta di convento. Prega, fa penitenza, si esercita nelle virtù: vuole fare solo la volontà di Dio. C’è però chi si accorge della ricchezza nascosta in questo frate umile. Gli fanno riprendere gli studi. Nel 1664 è abilitato alla predicazione: Padre Marco a qualsiasi altra occupazione preferirà sempre, pur ritenendosene indegno, il ministero della parola.
Le prime prediche risentono del gusto del tempo; ma presto il suo stile diventerà più essenziale, personalissimo. Non improvvisa, si prepara accuratamente; studia, soprattutto prega. La sua predicazione è alimentata e riscaldata dalla preghiera: «Le sue prediche erano meravigliose. Versava fiumi di eloquenza divina», assicura un uditore.
E la gente accorre. Non solo i semplici: ci sono prelati, nobili, intellettuali. E non si tratta di mera curiosità: la parola del predicatore sconvolge le coscienze e tocca i cuori. Mentre egli predica sono molti doti impegnati nell’ascoltare le confessioni.
Taumaturgo e apostolo del dolore perfetto
Predicatore efficace e richiesto; ma niente di eccezionale fino all’8 settembre 1676, quando, dopo la predica in onore della Vergine, nella chiesa del monastero di San Prosdocimo a Padova, Padre Marco benedice la monaca Vincenza Francesconi, inferma da tredici anni, e questa guarisce. Il fatto è subito risaputo. Padre Marco è preso d’assalto, specie dagli ammalati. Lo mandano allora a Venezia. L’affollamento si ripete e aumenta. In convento non c’è più pace e il trambusto spaventa l’autorità diocesana. Padre Marco deve far perdere le sue tracce: Chioggia, Rovigo, Verona… La situazione si calma, Padre Marco è di nuovo libero di esercitare il suo ministero e di benedire quanti si rivolgono a lui.
Il cappuccino fa allora in modo che la richiesta di benedizioni diventi una buona occasione per l’evangelizzazione, e non di superstizione e fanatismo. Egli “inventa” un rito penitenziale: preghiere, predica vibrante per ravvivare la fede e muovere al pentimento, recita dell’atto di dolore e, possibilmente, la confessione; quindi benedice e impartirà pure l’indulgenza plenaria quando il papa gli concederà tale privilegio.
Padre Marco insiste, servendosi anche di foglietti stampati, sul pentimento dei peccati così da divenire «il grande apostolo dell’atto di dolore perfetto, che per un quarto di secolo agitò e sconvolse con il suo messaggio penitenziale le coscienze d’Europa».
Alla benedizione succede l’incredibile. Nel 1681, a Monaco di Baviera, nella chiesa dei Cappuccini, si raccolsero «150 stampelle, 80 bastoni, 2 apparecchi ortopedici e altri oggetti lasciati dagli infermi guariti». La fama di taumaturgo complica terribilmente la vita di Padre Marco. La predicazione diventa faticosissima per la presenza di folle sempre più numerose. Sono decine di migliaia coloro che affollano i suoi quaresimali, tenuti senza anni e giorni d’interruzione nelle Venezie e Lombardia, città o piccoli paesi, che l’obbedienza gli assegna. Scrive: «Mi conviene predicare otto volte il giorno». «È tanto il concorso del popolo che non sto quieto né giorno né notte… E impossibile poter resistere senza speciale aiuto di Dio». Un testimone conferma: «Stupisce che resista a tanti strapazzi che di sé fa quel gran servo di Dio».
Missionario apostolico in Europa
A tale massacrante lavoro, dal 1680, sempre in obbedienza a papa Innocenzo XI e ai superiori cappuccini, s’aggiunge un altro impegno gravosissimo: i viaggi attraverso l’Europa quale “missionario apostolico”. Principi e prelati vogliono consultarlo, ricevere la benedizione. Sono centinaia e migliaia di chilometri. Padre Marco passa per la Francia, visita le città del Belgio e Olanda, della Germania, Austria e Svizzera; sempre a piedi, finché può. E i devoti, spesso indiscreti, s’assiepano al suo passaggio per vederlo, sentirlo, toccarlo; gli tagliuzzano la tonaca e gli strappano la barba… Il povero frate per predicare usa un miscuglio d’italiano e latino con qualche frase in tedesco. Ma si fa capire. «Fa piangere anche chi non lo intende», scrive un amico.
Importantissima la sua opera di mediazione e consiglio presso l’imperatore Leopoldo I d’Austria, che Padre Marco conosce a Linz nel 1680 e del quale diventa l’”angelo tutelare”. Leopoldo ha tante buone qualità, è pio e colto; ma come sovrano è debole e indeciso. È già arduo tenere insieme quel mosaico di stati che costituiscono l’impero; ci sono poi le minacce dall’esterno: i turchi ottomani che premono minacciosi, le rivalità di Luigi XIV di Francia che fa di tutto per creare difficoltà, l’Ungheria che non è tranquilla. Ci vuole proprio Padre Marco. Dalle lettere si arguisce il suo atteggiamento verso l’imperatore: grandissimo rispetto ma sincerità e fermezza. Egli è cosciente di svolgere una missione affidatagli da Dio e dalla Chiesa: «Eseguirò il tutto conforme la pia e santa mente di nostro Signore (il papa)».
Vienna, 12 settembre 1683
La situazione precipita nel 1683. Il gran visir Kara Mustafà si muove con il poderoso esercito del sultano contro l’Austria e invade l’Ungheria e parte dei Balcani. Dove passa fa terra bruciata: è il terrore, e l’obiettivo è la conquista della capitale dell’impero, e magari poi anche la calata fino a Roma. Leopoldo può opporre forze molto inferiori. Innocenzo XI si attiva allora per chiamare a raccolta vari principi, fra i quali il re di Polonia. Ma l’accordo è faticoso. I turchi intanto stringono d’assedio Vienna e da due mesi la città geme e langue: in settembre è sul punto di capitolare. Se cade Vienna, l’Europa è esposta a pericoli ancora maggiori, forse irreparabili.
Il papa invia a questo punto Padre Marco all’esercito cristiano come suo legato. Il cappuccino obbedisce. È ammesso al consiglio di guerra, riesce a sopire le rivalità, tiene l’imperatore lontano dalla contesa sul comando e sceglie il re Jan Sobieski di Polonia come capo nominale. Invoca dal cielo la liberazione e obbliga l’esercito a una giornata di preghiera. È l’8 settembre: celebra la messa, esorta i soldati al pentimento dei peccati, fa recitare l’atto di dolore e impartisce a tutti la benedizione. Ora l’esercito si muove verso Vienna, convinto della sua missione davanti alla storia.
Il 12 settembre è il giorno fatidico. Padre Marco celebra di nuovo all’alba la messa e offre la sua vita a Dio, purché siano salve Vienna e l’Europa. La vittoria arriva nonostante la grande inferiorità delle truppe alleate. I turchi fuggono. Tripudio in tutto il continente: il papa in ringraziamento estende nella Chiesa la memoria del Santo Nome di Maria; decisivo merito nella liberazione è attribuito a Padre Marco.
Naturalmente rispuntano le rivalità e non si sa sfruttare la vittoria. Si fa strada però l’idea di una lega antiturca, la “lega santa”, tra il papa, l’imperatore, la Polonia e Venezia. Padre Marco si prodiga per l’accordo, ma sempre come religioso e apostolo: «Mi si vorrebbe politico, cosa ch’io aborrisco più che la morte», scrive. Ogni anno continua a varcare le Alpi per incontrare e consigliare l’imperatore a Vienna e per visitare generali ed esercito accampati in Ungheria e nei Balcani, che egli sprona all’opera di liberazione e assiste spiritualmente: ambasciatore e cappellano militare!
Tessitore della pace
Non mancano i successi. Importantissima la conquista di Buda del 2 settembre 1686. «È certo, padre Marco mio riverito, che se lei non era sotto Buda facevimo la frittata. Lei è il braccio diritto della santa lega», gli scrive il legato di Venezia. Il Nostro è infatti il primo a entrare con una statua della Madonna nella fortezza liberata dopo quasi centocinquant’anni che era in mano ai turchi. Nel settembre 1688 si arriva anche alla presa di Belgrado, dove Padre Marco ottiene che sia salva la vita di ottocento soldati ottomani asserragliati nel castello.
Ma i tempi si fanno di nuovo difficili. I turchi, ripresa Belgrado nel 1690, tornano a farsi minacciosi. La Francia ne profitta e attacca l’impero a occidente. Padre Marco intensifica la sua missione diplomatica, ma soprattutto penitenziale; ha fiducia solo in Dio. Siamo nel 1697: Vienna corre il pericolo di un altro assedio e l’imperatore è spaventato. La città allora prega senza soste dietro a Padre Marco, che guida una “peregrinatio” dell’immagine miracolosa di Maria Potsch, fatta giungere dall’Ungheria. Dopo due mesi, una notizia folgorante: il valoroso principe e comandante Eugenio di Savoia ha sconfitto i turchi a Zenta. L’Europa non sarà più in loro scacco.
La pace dell’impero ottomano con quello d’Austria sarà firmata nel gennaio 1699 a Carlowitz. A Venezia intanto un ottavario di preghiere alla Vergine per la pace è pure indetto dal cappuccino. Il doge esclama: «Padre Marco, siete il rifugio della nostra Repubblica». Ma lui: «Dio sa che il fine di tutte le mie opere è la volontà di Dio sola».
Contemplativo nell’azione
Nel suo cuore c’è sempre l’aspirazione alla vita nascosta, nel silenzio e nella preghiera. È “un contemplativo nell’azione”. Nei viaggi conta i giorni che gli mancano per tornare in convento: qui gli pare di essere in paradiso. «Ma è pur vero che non posso stare in paradiso contro la volontà di Dio… Faccia Dio di me tutto quello gli piace». «Io mi trovo tanto nauseato delle corti che provo un purgatorio».
Ore di paradiso sono le messe celebrate da lui, e per questo dette “angeliche”. Lo sostengono e confortano pure il pensiero e l’invocazione devota alla Vergine Maria. E stanco e malandato di salute, eppure sempre sereno e accogliente: «Pareva nel suo viso la propria bontà e mansuetudine». La sua era una “faccia d’angelo”. Scrive un suo contemporaneo: «Fu sempre un ritratto di penitenza rigorosa, di umiltà, di patienza e di obedienza; di giorno in giorno cresceva nel fervore dell’orazione… Che ci resta dunque a dire di quel gran servo di Dio, se non che è un ritratto di ogni sorta di virtù e di vita esemplare?».
Morte di un santo
La morte coglie Padre Marco al suo quattordicesimo viaggio in Austria. La situazione è tanto confusa: «Io sto faticando per il bene comune né mai ho trovato le cose più imbrogliate di quello che trovi ora». «Se mi viene un poco de febre, sono perduto». E la febbre viene. Nel convento di Vienna i medici le tentano tutte, ma invano. Il nunzio apostolico gli imparte a letto la benedizione del papa. Anche l’imperatore Leopoldo e la consorte Eleonora gli fanno visita. Assistono addirittura alla sua morte il 13 agosto 1699, alle 11 del mattino, l’ora in cui Padre Marco era solito impartire la benedizione: «Spirò così placidamente che appena si conobbe», scrive Leopoldo. Ai funerali la folla è incontenibile. «Se non ci fossero state le guardie ben rafforzate, l’avrebbero lacerato per devozione». Nel 1703 la salma è trasferita nel sepolcro fatto costruire da Leopoldo I nella Kapuzinerkirche, dove sono pure le tombe imperiali.
La fama della santità di Padre Marco resiste all’usura del tempo, ma le condizioni politiche e avverse circostanze non permettono di istruire il processo per la canonizzazione. Bisognerà aspettare due secoli, quando il popolo di Vienna chiede l’inizio della causa. Altri ritardi e altre avversità procedurali rallentano i lavori. Finalmente la via si appiana, grazie anche all’indefesso lavoro e alle grandi convinzioni di un umile emulo di Marco d’Aviano: il cappuccino padre Venanzio Renier.
Dal 27 aprile 2003 la Chiesa può così onorare come beato questo vero figlio di San Francesco d’Assisi, che tanto fece e soffrì per l’Europa cristiana.
[Fonte: P. Zenone – P. Fernando Artuso, Felici fratelli, Edizioni Frate Indovino, Perugia, 1986, 203-210].
Per la casa editrice San Liberale Mons. Lino Cusinato ha pubblicato una nuova bibliografia del nostro vescovo cappuccino Beato Andrea Giacinto Longhin. Il sottotitolo «racconto biografico» qualifica il taglio che l’autore ha voluto dare a questa sua nuova opera.
Infatti il racconto segue il Beato passo passo «lungo lo svolgersi della sua vita: mantenendosi fedele alla successione temporale, facendo conoscere anche gli ambienti in cui è vissuto e l’interazione con le persone e con gli avvenimenti nei quali è stato coinvolto» (p. XIII).
Mons. Lino non è nuovo a imprese simili. Ha già pubblicato nel 2002 una biografia dal titolo Un vescovo con la sua chiesa; ha curato la pubblicazione della corrispondenza epistolare tra il Longhin e Maria Oliva Bonaldo dal titolo Carissima figlia del 2006; nel 2013 ha curato la riedizione critica della Breve storia di Marco d’Aviano scritta da Longhin, con saggi sulle consonanze spirituali tra i due.
«Sul Beato Vescovo ha scritto numerosi articoli e saggi in riviste e interventi negli Atti di convegni in riferimento ai rapporti col clero diocesano, alla sua azione pastorale durante la Prima guerra mondiale, ai suoi interventi su questioni sociali del territorio, sulle relazioni con personaggi del suo tempo» (dalla terza di copertina).
Fr. Gabriele Bortolami ha pubblicato per le edizioni Eurilink University Press la sua tesi di dottorato di ricerca dal titolo: Feticci e credenze religiose dei Bokongo.
Dalla seconda di copertina
Nel mondo occidentale, così proteso verso la modernità, troppo spesso soltanto materiale, i contenuti di quest’opera possono apparire completamente al di fuori del tempo e di qualsiasi mentalità. L’Africa, oggi, risulta essere diversa dall’immagine che, fino ad almeno cinquanta anni fa, il colonialismo ne aveva dato. È pur vero che è mutato l’atteggiamento nei confronti di questo grande continente: non più un mero contenitore di cui sfruttare, fino all’osso, le ingenti risorse, ma un insieme di popoli e culture, un complesso mosaico da studiare e interpretare, tra le cui tessere riluce la nascita dell’uomo.
L’Autore, padre Gabriele Bortolami, un missionario cappuccino che da più decenni vive in Angola in stretto contatto con i Bakongo, offre ai lettori un lavoro molto accurato ed esaustivo, frutto, da un lato, di esperienze personali dirette e, dall’altro, di una letteratura critica imponente, una pertinente selezione di fonti, resoconti e cronache, il cui rigore documentale dà all’opera un potente respiro critico.
Un’analisi strutturale dell’etnia che va ad indagarne i multiformi complessi aspetti, sia nella loro dimensione storica oralmente tramandata che in quella di possibili future trasformazioni.
L’Autore è un ricercatore che fissa lo sguardo sulla realtà culturale e religiosa dei Bakongo e, come lui stesso afferma, «Nello sguardo di chi cerca c’è sempre un po’ di poesia che contiene in sé desiderio, curiosità e pietà”».
Nuova luce sui venti dipinti conservati al Santuario di San Leopoldo. Grazie ad un sostegno di 25mila euro provenienti dalla Fondazione Cariparo, la chiesa dei frati cappuccini in piazzale Santa Croce potrà finalmente permettersi di far ammirare ai visitatori le opere di Tiozzo, Pellizzari e Varotari. Tele che finora erano sempre rimaste in penombra, per via della poca luce del giorno su cui poteva fare affidamento e su un’illuminazione interna sommaria.
I santi consacrano il luogo dove hanno vissuto. Come Francesco Assisi i suoi eremi, Antonio Padova, Giovanni Vianney Ars, Pio da Pietrelcina San Giovanni Rotondo. Ma a Padova non c’è solo la basilica del “Santo”, ma anche una celletta-confessionale, nel convento dei cappuccini in piazza S. Croce, è diventato un luogo di attrazione. Qui san Leopoldo Mandić ha ascoltato le umili storie del peccato per oltre trent’anni. Questo “loghetto” fu risparmiato dall’incursione aerea del 14 maggio 1944, come il piccolo cappuccino aveva previsto:
La chiesa e il convento saranno colpiti dalle bombe, ma non questa celletta. Qui Dio ha usato tanta misericordia alle anime: deve restare a monumento della sua bontà.
La vita del santo “confessore” è racchiusa tutta in quei pochi metri quadrati. Ma non è facile raccontarla, perché è troppo semplice, nascosta alla sapienza del mondo.
Nato il 12 maggio 1866 a Herzog Novi, ossia Castelnuovo in Dalmazia, all’ingresso delle Bocche di Cattaro sull’Adriatico, ultimo di dodici figli, battezzato il 13 giugno col nome di Bogdan (Adeodato), il padre, Pietro Mandić, figlio di un “paron de nave”, cioè pescatore e commerciante, aveva sposato Carlotta Zarević, ambedue decisamente cattolici. Il ricordo della mamma affiorava spesso dal suo cuore:
Era di una pietà straordinaria. A lei debbo in modo particolare quello che sono.
Ragazzo riflessivo, raccolto, molto intelligente, tutto casa, chiesa e scuola, ma ardente di carattere. A sedici anni, il 16 novembre 1882, entrò nel seminario dei cappuccini di Udine.
La vocazione cappuccina di Adeodato nasceva da una forte ansia apostolica. Egli partiva per ritornare missionario tra “la sua gente”. Del resto un impulso di apostolato attivo nasceva anche dalle celebrazioni francescane lanciate da papa Leone XIII. Nei due anni trascorsi a Udine cercò di correggere, col silenzio e l’autocontrollo, quel suo difetto di pronuncia, un terribile sdrucciolo che lo bloccava nel suo desiderio di comunicare, avvivato dal suo carattere cordiale ed estroverso. Si rivelò subito un modello in tutto. L’anno di prova lo passò a Bassano del Grappa (Vicenza) dove, con l’abito cappuccino assunse il nome di fra Leopoldo il 2 maggio 1884. Poi ci fu il triennio filosofico a Padova, dal 1885 al 1888. Il 18 giugno 1887 – come egli stesso lasciò scritto – udì per la prima volta la voce di Dio parlargli del ritorno dei dissidenti orientali all’unità cattolica. È questo l’orientamento fondamentale di tutta la sua vita, il ritornello delle sue aspirazioni, la ragione della sua missione.
Nell’autunno del 1888 si trasferiva al convento del Redentore, presso l’isola veneziana della Giudecca, per un biennio di teologia, dopo il quale venne consacrato sacerdote, il 20 settembre 1890, nella chiesa de La Salute. Il suo sogno missionario gli sembrava più vicino. Subito chiese ai superiori di essere inviato missionario in Oriente. La risposta fu negativa. Era troppo balbuziente e i superiori non lo consideravano adatto. Anche successive e reiterate richieste vennero respinte. Egli si ripiegò nel silenzio dell’obbedienza, nel mistero della preghiera per l’unità, nella penombra del confessionale. Un campo missionario, più esteso delle terre d’Oriente, si apriva misteriosamente davanti al piccolo frate. La sua messa quotidiana, vissuta come impegno ecumenico, approfondiva la luce della sua vocazione, che poi si sprigionava penetrante e sapiente nel confessionale.
In sette anni di permanenza a Venezia, rilanciando sempre la sua ansia ecumenica, egli così piccolo e quasi goffo nel suo saio, era diventato un punto di riferimento, un vero maestro di spirito dotato di particolari carismi spirituali. Una pausa nel piccolo ospizio di Zara per tre anni gli sembrò un avvicinamento al suo ideale ecumenico. Pur senza un’attività diretta, egli dovette sentirsi a suo agio, vicino idealmente alla sua gente. Ma poi venne richiamato in Italia, a Bassano, dove trascorse un quinquennio tutto dedicato al confessionale, alla preghiera e allo studio dei suoi prediletti san Tommaso e sant’Agostino.
Nel 1905, per un altro anno, venne mandato al convento di Capodistria come vicario. Richiamato di nuovo in Italia, trascorse tre anni a Thiene (Vicenza) presso il santuario della Madonna dell’Olmo. Qui lavorò ad animare i gruppi dei terziari francescani, ma trascorreva molte ore notturne in orazione, che intensificò dopo una beffa ricevuta da tre giovani operaie, per cui venne esonerato dall’esercizio della confessione. Gli sembrava che tutto crollasse: la sua vocazione orientale, il desiderio di apostolato attivo, servizi di pubblica utilità. Egli era un piccolo frate, inadatto a tutto eccetto che a confessare. Ma anche di questo era stato privato. Un annientamento di sé e un abbandono mistico nella preghiera che lo amareggiò e insieme lo esaltò.
Trasferito a Padova nel 1909, i superiori gli affidarono la direzione degli studenti e l’insegnamento di patrologia. Un nuovo ardore apostolico lo prese nel voler dedicarsi alla predicazione, alimentata dalle sue letture e dall’insegnamento e restava profondamente scosso quando veniva a conoscere che molti sacerdoti e religiosi facevano sfoggio di erudizione profana nella predicazione. Pur non avendo il dono della parola per il difetto della balbuzie, sapeva infondere negli altri l’amore alla predicazione basata sul Vangelo. Questo periodo denso di studi e di impegno didattico a Padova, rappresentò il culmine drammatico della sua vocazione missionaria ed ecumenica, trasformata in offerta eroica di sé come olocausto e vittima. Nel mese di gennaio 1911 scriveva al suo direttore spirituale, che gli rispondeva: «Sia certo che questo atteggiamento di orante e di vittima dinanzi al Padre di tutti gioverà molto ai popoli dissidenti». Il 19 novembre 1912 si offri vittima per i propri studenti.
Questi atti eroici rappresentano la svolta della sua vita, l’inizio di una nuova dimensione spirituale. Ormai padre Leopoldo ha scelto uno stato permanente di vittima, nell’obbedienza radicale che assume i toni della dura obbedienza ignaziana e della mistica dell’annientamento sofferto con tutta la ricchezza della sua forte umanità dalmata. Aveva ormai quarantasette anni. È stato duro per lui sostituire ai suoi sogni di apostolato missionario i patimenti accettati in conformità a Cristo e a san Francesco. Egli, scrive un biografo, «sostituiva quanto poteva offrire di sé – fisicamente, esistenzialmente – agli scolari, ai penitenti, agli amici. La vita ne veniva compromessa per intero: compromessa perché gettata».
Esonerato dalla direzione degli studenti nel 1914, la sua vita futura sarebbe stata martirio di confessione, crocifissione al confessionale. Ma il suo cuore rimase sempre in Oriente. Per questo rifiutò sempre la cittadinanza italiana, tanto che durante la prima guerra mondiale fu costretto al confino e negli anni 1917-18 dovette pellegrinare nell’Italia meridionale, di convento in convento, come cittadino dell’impero asburgico allora in guerra con l’Italia. Quando, nel 1923,l’Istria e il Quarnaro furono annessi all’ Italia, padre Leopoldo fu destinato confessore a Zara. Una gioia immensa lo avvolse. Forse era la volta buona. Subito si trasferì nella nuova destinazione, ma poco tempo dopo, il 16 novembre veniva richiamato a Padova. La sua improvvisa partenza aveva inquietato una vera folla di penitenti che si rivolsero al vescovo Elia Dalla Costa. Odorico da Pordenone, ministro provinciale, fu costretto a richiamare il piccolo frate. Egli continuò il suo silenzioso martirio, appena addolcito nel 1924 da un corso di lingua croata tenuto a Venezia per i giovani frati. Sperava, almeno, di allevarsi un gruppo di missionari per l’Oriente, poiché infiorettava il suo insegnamento di risvolti apostolici. Aveva cinquantacinque anni.
Il 13 novembre 1927 redasse su un foglietto un suo ennesimo voto per il ritorno dei dissidenti orientali all’unità cattolica.
Tutti accorrevano al suo confessionale, piccoli e grandi, dotti e popolani, religiosi, sacerdoti, chierici e laici. Rinchiuso nella sua stanzetta di due metri per tre, con una finestrella malamente difesa dalle impannate e aperta su un cortiletto stretto e soffocato, padre Leopoldo esercitò fino alla morte il ministero della riconciliazione e della misericordia. Il suo Oriente divenne ogni anima che andava a chiedere il suo aiuto spirituale. Egli stesso il 13 gennaio 1941 scriveva:
Qualunque anima che avrà bisogno del mio ministero sarà per me un Oriente.
Confessava da dieci a dodici ore al giorno, incurante del freddo, del caldo, della stanchezza, delle malattie. «Stia tranquillo» – diceva ai suoi penitenti – «metta tutto sulle mie spalle, ci penso io», e si addossava sacrifici, preghiere, veglie notturne, digiuni, discipline a sangue. Egli andava incontro con gioia al penitente, anzi lo ringraziava e avrebbe voluto abbracciarlo. E una volta ascoltò in ginocchio un penitente che per sbaglio, entrando nella sua celletta, si era seduto lui sulla poltroncina.
Venne tacciato di lassista, di “manica larga”, e soffri molte contraddizioni. Ma egli, indicando il Crocifisso, rispondeva con meravigliosa esperienza della misericordia di Dio:
Se il Crocifisso mi avesse a rimproverare della manica larga risponderei: Questo triste esempio, paron Benedeto, me l’avete dato voi; ancora io non sono giunto alla follia di morire per le anime !
La storia del suo confessionale sarebbe un poema regale, una danza gioiosa di carismi e grazie e miracoli, che sarebbe troppo lungo raccontare. Ormai la vittima era pronta all’ultimo sacrificio.
Alla fine dell’autunno 1940 la sua salute declinò e andò sempre più peggiorando. All’inizio di aprile 1942 fu ricoverato all’ospedale civile. Ignorava di avere un tumore all’esofago. In convento continuò a confessare. Aveva paura della morte e il dolore lo stava consumando. Il 29 luglio 1942 confessò senza sosta e poi trascorse tutta la notte in preghiera. La mattina del 30 luglio nel prepararsi alla messa, svenne. Riportato a letto, ricevette i sacramenti degli infermi e terminando di ripetere le ultime parole della Salve Regina, tendendo le mani verso l’alto, quasi andasse incontro a qualcosa, come trasfigurato, spirò.
Tutta la città di Padova si riversò attorno alla sua salma e il suo funerale fu un trionfo. Trentaquattro anni dopo Paolo VI il 2 maggio 1976 lo dichiarava “beato”, e il 16 ottobre 1983 San papa Giovanni Paolo II lo proclamava “santo”.
Fonte: Costanzo Cargnoni (a cura di), Sulle orme dei Santi. Il Santorale cappuccino: santi, beati, venerabili, servi di Dio, Edizioni Padre Pio da Pietrelcina – Postulazione Generale OFMCap, San Giovanni Rotondo (FG) – Roma 2012, 381-386.
Nacque a Brindisi il 22 luglio 1559 da Guglielmo Russo e da Elisabetta Masella. Si conosce molto poco della sua infanzia, trascorsa nella città natale, ove ricevette la prima formazione. Rimasto orfano di padre, fu accolto dai conventuali brindisini, tra i quali frequentò con profitto la scuola. Morta più tardi anche la madre, si trasferì ormai adolescente a Venezia presso uno zio sacerdote, con il quale approfondi la sua formazione culturale e spirituale. A Venezia gli fu possibile conoscere e frequentare i cappuccini, che dimoravano in un umile convento presso la chiesetta di Santa Maria degli Angeli, nell’isola della Giudecca. Fu subito attratto dalla loro vita povera e austera, e presto domandò e ottenne di entrare nell’Ordine.
Indossato l’abito cappuccino a Verona il 19 febbraio 1575, fra Lorenzo compi con fervore l’anno di noviziato, vera scuola di ascesi e di santità, ed emise la professione religiosa il 24 marzo 1576. In seguito, prima a Padova poi a Venezia, intraprese lo studio della filosofia e della teologia, mostrando subito un’eccezionale acutezza intellettuale e un’insaziabile sete di sapere; diede importanza particolare alla sacra Scrittura, che apprese tutta a memoria, perfezionandosi anche nelle lingue bibliche. Più di tutto però si applicò all’acquisto della perfezione religiosa seguendo la scuola bonaventuriana, che privilegiava il fervore della volontà e l’ascensione dello spirito.
Dopo l’ordinazione sacerdotale, ricevuta dalle mani del patriarca di Venezia Giovanni Trevisan il 18 dicembre 1582, principale attività di Lorenzo fu il ministero della predicazione. Già da diacono aveva predicato un’intera quaresima nella chiesa veneziana di San Giovanni Nuovo: ora percorre tutta l’Italia impegnato nell’annunzio della parola di Dio. Era per questo compito favorito da tutto un corredo di doti fisiche, intellettuali e spirituali, che lo rendevano un vero e fecondo oratore: secondo la scuola francescana, la sua predicazione era saldamente fondata sulla Scrittura, da lui proclamata con lucidità di pensiero e ricchezza espressiva. Sono innumerevoli gli episodi di conversioni che si moltiplicavano attorno a lui, spesso anche tra i non cristiani, come avvenne a Roma dal 1592 al 1594, quando predicò agli ebrei per incarico delle autorità pontificie.
Presto Lorenzo fu chiamato a compiti di responsabilità e di governo. Dal 1583 al 1586 svolse l’ufficio di lettore, e nel triennio seguente, dal 1586 al 1589, esercitò l’incarico di guardiano e maestro dei novizi. Nel 1590 fu eletto provinciale di Toscana. Dal 1594 al 1597 fu provinciale di Venezia e venne chiamato allo stesso compito per la provincia svizzera nel 1598. Due anni prima, nel 1596, era stato eletto definitore generale.
Fondamentale fu l’azione di Lorenzo per la diffusione dell’Ordine cappuccino nella Mitteleuropa. Dopo la fondazione del convento di Innsbruck, nel 1593, toccò a lui accettare il sito per il nuovo convento di Salzburg, fondato tre anni dopo. In territorio imperiale fu fondato ancora nel 1597 un convento nella città di Trento. In seguito a pressanti richieste dell’arcivescovo di Praga Zbynek Berka von Duba, fu deciso nel capitolo generale del 1599 di inviare nella capitale della Boemia il cappuccino di Brindisi a capo di un gruppo di confratelli. L’arrivo a Praga, avvenuto nel novembre 1599, fu subito caratterizzato da innumerevoli difficoltà, causate soprattutto dalla popolazione, in gran parte di tendenze riformistiche e anticattoliche. Un’intensa attività apostolica, centrata sul ministero della predicazione e su un dialogo aperto e familiare, ebbe come frutto la fondazione di un convento e il ritorno alla fede cattolica di molta gente, conquistata dalle convincenti argomentazioni del cappuccino e soprattutto dalla sua fama di santità. Due nuovi insediamenti per i cappuccini furono fondati da Lorenzo nel corso del 1600 a Vienna e a Graz. Un fatto importante fu la sua partecipazione alla crociata antiturca: nonostante l’inettitudine dei comandanti, fu possibile all’esercito cristiano, spiritualmente sostenuto e incoraggiato dal cappuccino, ottenere nell’ottobre 1601 l’importante vittoria di Albareale.
Nel capitolo generale del 24 maggio 1602 Lorenzo fu eletto generale dei cappuccini: tale nuova carica comportava in primo luogo la visita di tutti i frati. L’Ordine si configurava allora suddiviso in trenta province con circa novemila religiosi, sparsi in tutta Europa: era compito del generale visitare tutte le province e incontrare i frati, esortando e incoraggiando tutti. Il generale risali l’Italia, visitò la Svizzera, passò per la Franca Contea e per la Lorena; a metà settembre era nei Paesi Bassi e trascorse l’inverno visitando le province francesi di Parigi, Lione, Marsiglia e Tolosa. Nel primo semestre del 1603 era in Spagna, da dove ritornò in Italia, effettuando la visita a Genova, prima di recarsi in Sicilia e nel Meridione. Nonostante le marce massacranti, continuò sempre ad osservare rigorosamente le rigide consuetudini dell’Ordine, i prolungati digiuni e le severe astinenze.
Dopo il triennio di generalato, fu inviato da Paolo V in Baviera e in Boemia. Oltre all’attività apostolica, svolse un’abile opera diplomatica tra il duca di Baviera Massimiliano di Wittelsbach e le autorità imperiali, che sfociò nella costituzione di una lega cattolica da opporre alla Unione evangelica, stretta tra luterani e calvinisti e tesa a dividere gli stati cattolici per trarne vantaggi territoriali. A tale scopo Lorenzo effettuò numerosi viaggi tra Monaco e Praga, e dovette recarsi anche in Spagna, ove riuscì a convincere Filippo III ad appoggiare la lega e ad aiutarla finanziariamente. In seguito, per circa un triennio, dal 1610 al 1613, risiedette a Monaco come rappresentante della Santa Sede. Nel capitolo generale
del 1613, eletto per la terza volta definitore generale, fu inviato come visitatore nella provincia di Genova, ove però venne acclamato come provinciale. Solo nel 1616 potè fare ritorno alla sua provincia di Venezia e dedicarsi a un periodo più intenso di ritiro e di preghiera.
Caratteristiche particolari della sua spiritualità, tipicamente francescana e cristocentrica, furono il culto dell’Eucaristia e la devozione alla Madonna. La santa messa, da lui celebrata con fervore incontenibile e ardenti invocazioni, si prolungava normalmente per una, due o tre ore, e spesso, in seguito a un indulto di Paolo V, anche fino a otto, dieci e dodici ore. Alla Vergine Maria egli attribuiva ogni dono e ogni grazia, e nulla risparmiava per diffonderne la devozione.
Nonostante la sua aspirazione alla vita ritirata, dovette spesso interromperla, su ordine del papa, per missioni diplomatiche finalizzate alla pace e alla concordia. È quello che fece nel 1614, quando trattò la resa dei piemontesi assediati in Oneglia; o nel 1616, quando intervenne per tentare un accomodamento tra spagnoli e piemontesi a Candia Lomellina. Nel 1618 riuscì ad ottenere la pace tra il governatore di Milano don Pedro di Toledo e il granduca di Savoia Carlo Emanuele I.
Nell’autunno del 1618 si trovò coinvolto nel tentativo di riportare serenità e pace nei Regno di Napoli, ove lo sfrenato e prepotente viceré don Pedro Téllez Girón duca di Osuna commetteva soprusi e angherie. Rappresentanti della nobiltà e del popolo si rivolsero al santo cappuccino, che ancora una volta dovette sottoporsi alle difficoltà di un lungo viaggio alla corte di Madrid. Quando le trattative stavano ormai per avere effetto positivo, Lorenzo si ammalò gravemente. Stremato dalle fatiche e dalle sofferenze, malgrado l’assistenza dei medici del re, morì il 22 luglio 1619, all’età di 60 anni. Il suo corpo fu trasportato a Villafranca del Bierzo (Galizia), ove fu tumulato nella chiesa del monastero delle francescane scalze.
Nonostante i gravosi compiti di governo all’interno dell’Ordine e la fervida attività diplomatica esterna, Lorenzo da Brindisi ebbe modo di stendere numerosi scritti, che tra il 1928 e il 1956 sono stati raccolti nell’edizione dell’Opera omnia. Essi possono essere suddivisi in quattro classi:
1. opere finalizzate alla predicazione: sono la maggioranza e comprendono i quaresimali, gli avventuali, i domenicali, il Santorale con una nutrita serie di discorsi per le feste dei santi, il Mariale, vero trattato di mariologia con la presentazione di tutte le prerogative della Vergine Maria e del suo ruolo nella storia della salvezza e una ricca serie di esposizioni sulla Salve Regina, sul Magnificat e sull’Ave Maria;
2. opere esegetiche, tra le quali vanno enumerate la Explanatio in Genesim, ricco commento ai primi undici capitoli del primo libro della Scrittura, e il De numeris amorosis, opuscolo sul significato mistico e cabalistico del nome ebraico di Dio;
3. opere di controversia religiosa: va menzionata soprattutto la Lutheranismi hypotyposis, composta fra il 1607 e il 1609 e indirizzata inizialmente contro il predicante riformato Policarpo Laisero: essa rappresenta una confutazione completa e organica dell’intera dottrina luterana;
4. scritti di carattere personale e autobiografico: si tratta dell’opuscolo De rebus Austriae et Bohemiae, scritto per ordine dei superiori con la narrazione delle vicende occorse nei paesi tedeschi tra il 1599 e il 1612.
A soli quattro anni dalla morte di Lorenzo da Brindisi fu introdotto dal generale dell’Ordine Clemente da Noto il processo di canonizzazione. Lunghe battute di arresto si verificarono per il noto decreto di Urbano VIII e in seguito per critici eventi di natura politico-religiosa. La beatificazione ebbe luogo per opera di Pio VI il 23 maggio 1783, e circa cento anni dopo fu possibile conseguire la sua iscrizione nell’albo dei santi, effettuata da Leone XIII l’8 dicembre 1881. Dopo l’esame delle sue opere, definite “veri tesori di sapienza”, Giovanni XXIII, il 19 marzo 1959, proclamò il santo brindisino Dottore della Chiesa.
Nell’iconografia i motivi più ricorrenti sono quelli che si ispirano alla celebrazione della messa e alla scienza del santo, che viene rappresentato in atto di scrivere le sue opere. Un terzo motivo è quello della battaglia di Albareale contro i turchi.
Fonte: Costanzo Cargnoni (a cura di), Sulle orme dei Santi. Il Santorale cappuccino: santi, beati, venerabili, servi di Dio, Edizioni Padre Pio da Pietrelcina – Postulazione Generale OFMCap, San Giovanni Rotondo (FG) – Roma 2012, 85-90.
Le principali caratteristiche delle missioni al popolo sono:
– l’annuncio kerigmatico della Persona di Gesù e della sua salvezza offerta a ciascuno, in un contesto di incontro, ascolto, dialogo con le persone;
– l’ itineranza, che porta a incontrare le persone nel loro ambiente di vita quotidiana: casa, lavoro mercato, la strada, scuole, istituzioni pubbliche, ospedale…;
– il carattere popolare: l’incontro e l’annuncio a tutte le categorie di persone e all’intera comunità, coinvolgendo tutto il paese, gli abitanti e l’opinione pubblica, con particolare attenzione alle caratteristiche socio-culturali del territorio.
• E’ un segno importante che l’équipe evangelizzatrice sia aperta, cioè non sia formato solamente di frati e suore ma comprenda anche la presenza e la testimonianza di laici, delle coppie, alcuni giovani.
• La preparazione alla missione è sommamente importante perché costituisce una condizione fondamentale per il buon esito della missione. Richiede una riflessione e cura particolare per impostarla nel modo più appropriato.
• Per ben avviare e condurre la missione sono indispensabili l’adesione sincera e il coinvolgimento effettivo del Consiglio pastorale parrocchiale e di tutti gli altri operatori pastorali, incontrati dal responsabile della missione, come pure le associazioni, i vari gruppi e movimenti presenti nella parrocchia.
È bene tener presente e vigilare perché ci può essere chi, per paure consce o inconsce, per latente sfiducia, scarso fervore o per altri motivi, manifesterà dubbi, critiche, disinteresse, e non sarà ben disposto ad accogliere la missione. Evangelizzare è sempre opera di Dio e due cose possono bloccarla: il peccato e la paura. Il peccato è di dire:
non serve a nulla.
Si entrerà con piena convinzione nello spirito della missione se essa sarà percepita, nella luce della fede, come un appello dello Spirito Santo e un dono da offrire al nostro popolo.
• Meritano d’esser considerate con particolare attenzione:
– la famiglia
– i non praticanti e i giovani, due categorie difficilmente raggiungibili. Per loro vanno studiati modalità specifiche di invito, luoghi di incontro, proposte, contenuti, linguaggi, secondo quando ci suggeriscono i Vescovi: Ci pare opportuno chiedere per gli anni a venire un’attenzione particolare ai giovani e alla famiglia (n. 51.)
La preparazione non deve essere né troppo prolungata (rischia di produrre tedio e di stemperare il senso di novità), né affrettata (rischia l’improvvisazione). In genere, è indicato un periodo di circa due anni, soprattutto allo scopo di ben preparare il parroco e la comunità. A tale scopo è riservata una domenica per l’annuncio della missione, e si invita a pregare in ogni messa della domenica con la preghiera della missione.
• Viene proposto con cura il tema, espresso in una frase biblica o un motto (Zaccheo, i due discepoli di Emmaus, la samaritana). Risulta di grande efficacia far dipingere o scegliere una icona ispiratrice, da esporre in chiesa, nel giorno dell’apertura delle missioni, e riportala nei vari programmi. Essa può diventare il soggetto di “Lectio divina” nei vari incontri, nelle celebrazioni, di composizioni da parte dei ragazzi ecc.
• Viene ben curato l’annuncio della missione, presentandone con intelligenza la forma, la modalità, il contenuto, in modo che sia ben recepita nel suo aspetto positivo e susciti il desiderio di una nuova e forte esperienza di fede. Si deve fare in modo che l’annuncio arrivi a tutti con i mezzi più opportuni, includendo istituzioni pubbliche, luoghi di lavoro, ecc. Si promuove la preparazione spirituale e l’intercessione. A questo scopo è bene comporre una preghiera speciale: proporre l’adorazione eucaristica, la recita del santo Rosario, un pellegrinaggio, coinvolgere un monastero di clausura, ecc. I malati siano opportunamente invitati a pregare e a offrire le loro sofferenze per il buon esito della missione.
• Si esamina l’opportunità di articolare la parrocchia in vari settori, prevedendo per ciascuno l’animazione e la formazione di Centri di ascolto.
La Comunità cristiana deve diventare missionaria
Si invitano i fedeli laici a offrire la loro collaborazione alla missione assumendo il compito di evangelizzatori. Il concilio Vaticano II dichiara: ( «I laici… nutriti dell’attiva partecipazione alla vita liturgica della propria comunità, partecipano con sollecitudine alle opere apostoli che della medesima; conducono alla Chiesa gli uomini che forse ne vivono lontani; cooperano con dedizione generosa nel comunicare la parola di Dio» (Apostolicam actuositatem, n. l0). L’Esortazione apostolica Christifdeles laici dice al riguardo: «I fedeli laici, proprio perché membri della Chiesa, hanno la vocazione, la missione di essere annunciatori del Vangelo» (n. 33). E devono tendere a essere soprattutto dei testimoni, perché l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri, lo fa perché sono dei testimoni (Paolo VI, Evangelii nuntiandi, 41).